Il Libro II del Codice Civile, dedicato alla materia delle successioni ereditarie, conserva pressoché invariato il proprio contenuto normativo originario, in quanto dal 1942 ad oggi il testo legislativo non è stato interessato da rilevanti interventi modificativi, ad eccezione dell’introduzione dell’istituto del patto di famiglia e della nozione di unità dello status filiale nell’attribuzione dei diritti successori.
Con la Legge 14 febbraio 2006, n. 55 il Legislatore ha introdotto nel Codice il patto di famiglia, inserendo nel Titolo IV del Libro II, tra le norme in materia di divisione, il Capo V bis composto di soli sette articoli, dal 768 bis al 768 octies.
Tale istituto è certamente inedito per il nostro ordinamento giuridico e, se in dottrina non vi è unitarietà di interpretazione sulla natura e sulla disciplina del patto di famiglia, nella prassi non si è ancora raggiunto un suo considerevole utilizzo nonostante gli evidenti vantaggi – anche fiscali – ad esso connessi.
Ciò, con ogni probabilità, dipende dall’impostazione tradizionale e statica che caratterizza la legislazione italiana in tema di successioni mortis causa, e dal rapporto del patto di famiglia con il divieto di patti successori espresso dall’art. 458 Cod. Civ. e con la tutela riconosciuta a favore degli eredi legittimari.
Il patto di famiglia, funzionalmente, assolve allo scopo di tutelare l’azienda e l’attività d’impresa – esercitata dall’imprenditore individualmente o tramite una partecipazione societaria – garantendone il passaggio generazionale.
Per meglio comprendere la significativa utilità di tale istituto giuridico, giova rammentare che la realtà economica italiana è per la massima parte composta da micro, piccole e medie imprese, nelle quali predominante è il ruolo dell’imprenditore-proprietario ed il peculiare apporto personale profuso nella gestione dell’attività.
In Italia, le imprese di famiglia rappresentano l’82% delle realtà imprenditoriali (European Family Business, 2018) ed il fenomeno appare ancor più rilevante, se si considera che nella nostra Nazione le partecipazioni societarie con lo stesso cognome corrispondono al 72% nelle società di persone ed al 66% nelle società di capitali (da un’indagine della Banca d’Italia, 2019). Mediante il patto di famiglia, dunque, l’imprenditore in vita ha la possibilità di dare una destinazione stabile all’impresa, scegliendo tra i propri discendenti il soggetto meglio capace e meritevole, e di prevenire in tal modo future dispute tra gli eredi che potrebbero comportare una frammentazione dell’impresa od anche una crisi causata dalla gestione litigiosa da parte dei successivi contitolari.
Il patto di famiglia è pertanto uno strumento volto ad evitare che, in concomitanza ed in conseguenza del passaggio generazionale, si verifichi una disgregazione dell’azienda (o della partecipazione societaria) e la dispersione del relativo valore economico e produttivo.
L’introduzione nel Codice del patto di famiglia ha imposto un adeguamento dei limiti storicamente dettati dalle norme di diritto successorio, costituiti dal citato divieto di patti successori ex art. 458 c.c. e dalla tutela offerta dall’ordinamento a quella particolare categoria di successibili, che sono i legittimari.
Il testo dell’art. 458 c.c. è stato modificato dal Legislatore per armonizzarne il contenuto con il nuovo istituto giuridico, e così rendendo il divieto in essa sancito non più assoluto ma relativo per effetto della clausola di esclusione contenuta in incipit della disposizione normativa (“fatto salvo quanto disposto dagli articoli 768 bis e seguenti”).
Ugualmente, il patto di famiglia ha introdotto una rilevante deroga agli strumenti azionabili dai legittimari, prevedendo l’art. 768 quater c.c. che la collazione e l’azione di riduzione siano inapplicabili al nuovo istituto (“quanto ricevuto dai contraenti non è soggetto a collazione o a riduzione”), così da assicurare la stabilità futura dell’atto di trasferimento.
Il patto di famiglia, pur essendo idoneo ad incidere significativamente sulla consistenza del patrimonio ereditario dell’imprenditore, per espressa definizione di legge è un atto negoziale inter vivos, comportante l’immediato trasferimento dell’azienda ovvero delle partecipazioni societarie a favore di uno o più discendenti.
Il patto di famiglia è un contratto essenzialmente gratuito, ma di contenuto oneroso, per mezzo del quale vengono anticipate in vita delle disposizioni essenzialmente di tipo testamentario.
A pena di nullità, l’art. 768 ter c.c. dispone che il patto di famiglia debba essere concluso con atto pubblico; tale vincolo di forma pare coerente con le solennità formali previste dal Legislatore in materia successoria (testamento e donazione).
Sicché, il patto di famiglia deve essere stipulato alla presenza di un soggetto qualificato, il notaio, e quand’anche non espressamente imposto dalla norma, preferibilmente di due testimoni.
Al patto di famiglia, devono necessariamente partecipare: il disponente, ovvero l’imprenditore titolare dell’azienda o delle quote societarie; uno o più beneficiari, discendenti del disponente, a cui saranno assegnate l’azienda o la partecipazione azionaria oggetto del trasferimento; nonché il coniuge del disponente, ove esistente, e tutti gli ulteriori soggetti che, se al momento dell’atto si aprisse la successione ereditaria dell’imprenditore, assumerebbero la veste di legittimari.
La necessità che all’atto negoziale partecipino anche i soggetti, che non siano beneficiari del trasferimento dell’azienda o delle quote societarie, trova ragione nella previsione normativa che essi abbiano diritto ad essere liquidati da parte degli assegnatari, salvo che esprimano totale o parziale rinuncia a detta liquidazione.
La liquidazione, di cui all’art. 768 quater c.c., segue il valore delle quote spettanti ai legittimari in sede di successione mortis causa, potendo altresì avvenire, anche in parte, con conferimenti in natura e da imputarsi alla porzione di riserva.
L’attribuzione dei beni a liquidazione dei partecipanti all’atto, non assegnatari dell’azienda o delle quote societarie, può compiersi anche successivamente alla stipula del patto di famiglia, con un successivo atto che dovrà essere ad esso dichiarato collegato, oltre che presentare i medesimi requisiti formali e coinvolgere gli stessi soggetti che abbiano partecipato al primo contratto (o coloro che, nel tempo, li abbiano sostituiti).
La natura plurilaterale del contratto con cui viene stipulato il patto di famiglia, pone un interrogativo circa l’eventualità che uno, tra i soggetti legittimari non assegnatari dell’azienda o della partecipazione societaria, intenda consapevolmente non partecipare all’atto stesso.
In tal caso, in assenza di un’esplicita disposizione normativa, si ritiene che la mancata partecipazione consapevole non sia idonea a travolgere la validità dell’atto, incombendo tuttavia sulle parti del negotium un obbligo informativo verso i legittimari sì che questi siano a conoscenza dell’imminente iniziativa dispositiva dell’imprenditore e, tuttavia, liberamente e coscientemente scelgano di rimanere estranei all’atto.
Il patto di famiglia, ex art. 768 quinquies c.c., può essere impugnato per vizio del consenso da chi vi abbia partecipato, secondo la disciplina dettata dagli articoli 1427 e seguenti del Codice ossia ogni qualvolta la volontà negoziale sia stata data per errore, estorta con violenza o carpita mediante dolo.
A differenza delle regole ordinarie, l’azione di annullamento si prescrive nel termine di un solo anno.
La significativa riduzione del tempo, entro il quale può essere proposta l’azione, risponde agli interessi sottostanti il patto di famiglia, al fine di garantirne la celere stabilità degli effetti allo scopo di tutelare la certezza del trasferimento e delle conseguenti implicazioni di ordine economico ed imprenditoriale.
Infatti, se così non fosse, una duratura incertezza sulla validità dell’atto potrebbe seriamente pregiudicare l’intento stesso del patto di famiglia e del risultato che con esso ci si prefigge conseguire, nell’avvicendamento generazionale dell’impresa.
A chiusura della disciplina normativa introdotta con la L. 55/2006, gli articoli 768 sexies e septies trattano i rapporti del patto di famiglia verso i terzi e le ipotesi di scioglimento o modificazione del contratto.
La prima delle norme ora menzionate disciplina i diritti spettanti al coniuge ed agli ulteriori legittimari sopravvenuti alla stipulazione del patto di famiglia: è l’eventualità in cui l’imprenditore, dopo l’atto negoziale, abbia contratto matrimonio ovvero abbia avuto, riconosciuto o adottato dei figli. Qualora ciò accada, tali soggetti – essendo terzi al patto di famiglia precedentemente stipulato – possono chiedere ai beneficiari della disposizione traslativa dell’azienda o delle partecipazioni societaria la liquidazione ad essi spettante in virtù dell’art. 678 quater c.c., maggiorata degli interessi legali maturati; in difetto del pagamento, potranno impugnare il contratto ai sensi del precedente art. 678 quinquies.
Quanto allo scioglimento ed alla modificazione del patto di famiglia, l’art. 678 septies ne tipizza le cause, prevedendo che gli originari partecipanti possano intervenire sul contratto concluso con un successivo “diverso contratto” oppure “mediante recesso”, purché la facoltà di recedere sia stata espressamente prevista nel primo negotium e comunque tramite dichiarazione munita di certificazione notarile.
In ultimo, l’art. 768 octies Cod. Civile prevede che le controversie insorgenti dal patto di famiglia debbano essere preliminarmente sottoposte alla valutazione di uno degli organismi di conciliazione istituiti del D.Lgs. 5/2003, deputati al tentativo di risoluzione stragiudiziale delle controversie in ambito societario.
Una breve riflessione conclusiva.
Il patto di famiglia, descritto sommariamente nei suoi tratti peculiari, è un istituto relativamente nuovo nell’ordinamento giuridico italiano, ed attualmente non ha incontrato il favore di un significativo utilizzo pratico.
Le ragioni, per le quali il patto di famiglia è scarsamente conosciuto ed utilizzato, sono da individuarsi sia nella succinta disciplina normativa e nelle relative perplessità interpretative sulle quali la dottrina ancora oggi si interroga, sia nella staticità e nella rigidità del sistema successorio italiano.
Indubbiamente, un adeguamento se non addirittura una riforma organica delle successioni mortis causa e degli istituti ad esse connesse, da tempo auspicata, non potrebbe che giovare alla migliore comprensione ed alla diffusione di uno strumento, quale il patto di famiglia, di evidente utilità ed interesse per la tutela del patrimonio imprenditoriale ed il suo trasferimento generazionale.
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